Social Network: oltre ai like c’è di più?

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“Il medium è il messaggio” recita una nota frase del celebre sociologo Marshall McLuhan, conosciuto anche per la metafora del villaggio globale. Ciò significa che non possiamo valutare la qualità e le modalità di una comunicazione a prescindere dal mezzo che utilizziamo per comunicare, il quale gioca un ruolo fortemente vincolante.

Per fare un semplice esempio, nella nostra esperienza quotidiana possiamo constatare quanto sia diversa una comunicazione telefonica da una via chat. Nel primo caso si può modulare la voce e dosare il tono per trasmettere un contenuto emotivo aggiuntivo, e stabilire un rapporto di empatia con l’interlocutore. Una buona parte della comunicazione si svolge dunque su un canale non verbale, riproducendo un po’ quanto avviene nel dialogo faccia a faccia. Nella seconda situazione osserviamo, invece, quanto sia difficile ottenere lo stesso risultato. Per evitare di comunicare le emozioni sbagliate dobbiamo fare spesso ricorso a emoticon oppure immagini. Sappiamo bene che, quando questo non funziona, se ne paga il prezzo con fraintendimenti di ogni genere.

La comunicazione su social network, con le sue regole, i suoi like e le sue interazioni stereotipate promette di ricalcare fedelmente i comportamenti spontanei tra le persone ma ha creato, invece, delle enormi sacche di narcisismo, con conseguenti abiezioni nei comportamenti e un’insana competizione sociale basata sull’accaparramento e l’esibizione del gradimento racimolato con ogni mezzo.

Capacità di empatia praticamente assente, propensione al giudizio, cinismo e indifferenza sono tra gli effetti più vistosi che si possono osservare nei commenti della bacheca di chiunque. Sebbene ci sia chi utilizza questi strumenti per veicolare dei messaggi positivi, in molte situazioni si direbbe che siano venute meno delle barriere morali, così da spingere un numero via via crescente di persone a tirare fuori il peggio di se, in forma sempre più gratuita. Impossibile pensare che ciò non abbia delle ricadute sulla condotta reale, visto che la corsa ai like passa per l’esibizione di comportamenti anche abietti e disdicevoli che provengono da quella. Tutto fa brodo per ottenere visibilità. Alle più alte vette troviamo follie come il Knockout Game: il gioco consiste nell’aggredire un passante a caso mettendolo al tappeto con un unico pugno dato all’improvviso per poi fuggire. Un complice riprende il tutto e lo posta sui social.

Che si tratti di casi ordinari o estremi, l’idea di fondo è che non conti essere ma apparire. Un filone che ha iniziato a farsi strada e disseminare il suo veleno con la comparsa dei reality show, per cui si vale nella misura di quanto si è visibili, a prescindere da cosa una persona sia capace di fare. Anzi, se non sa fare nulla è ancora meglio che si risulta pure più simpatici! La rete pullula di personaggi che si sono arricchiti a suon di click ostentando in rete il loro non saper fare nulla e mortificando chi, pur lavorando duramente e con profitto in settori meritevoli, non riuscirà mai ad arrivare agli stessi profitti. Showman improvvisati e senza reali contenuti ma ben incanalati in questo perverso meccanismo che premia unicamente la propagazione compulsiva e superficiale, cioè virale. Termine che già di per se è sintomatico di una società malata e priva dei necessari anticorpi, di cui questi fenomeni sono un bubbone che sta per esplodere.

La situazione è ormai così critica che le piattaforme più famose stanno adottando delle contromisure, tra cui la più discussa è nascondere il conteggio dei like. Il proposito sarebbe di rendere i social network un luogo più felice. Non è facile stabilire quanto di filantropico ci sia in questa decisione: quel che sembra evidente è che le compagnie potrebbero sfruttare l’esclusiva su quest’informazione, un tempo pubblica, per offrirla dietro compenso a chi è alla ricerca di influencer da reclutare per fini promozionali. Ciò trasformerebbe le piattaforme social in enormi agenzie pubblicitarie. Una furbizia, ma le persone saranno davvero più felici?