Una Pace d’Inferno

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Una pace d’inferno

“arguta riflessione sui tempi che stiamo vivendo”

Rinunciando alla verità perché fonte di scontro, invece che un mondo migliore abbiamo ottenuto la società dell’armistizio. Cioè una polveriera. L’unica salvezza è in una relazione

Venticinque anni fa scrissi a don Luigi Giussani una breve riflessione su “Nuove tecniche del demonio”: finito il fascino distruttivo delle grandi ideologie, il serpente intelligente ha capito che per distrarre l’uomo dalla grande impresa risulta oggi molto più efficace il “nulla” piuttosto che la guerra, con la benedizione di tanti vescovi. Investire, perdere tempo su nulla. Impegnarsi, allenarsi, sfinirsi, consumarsi su nulla. Nulla che possa in qualche modo generare qualcosa. Nulla che possa “lasciare un segno” (la grande impresa).

Ritorno, un po’ invecchiato, sull’argomento: ci sono nuove versioni da scaricare (per quanto progrediamo, il diavolo ci aspetta online, sempre updated e sornione).

Oggi ci fa girare a vuoto, ci impone di ragionare su un palinsesto di argomenti à la page, di per sé anche importanti (ponti, muri, moralità, sostenibilità, gender, diritti, realizzazione…), costringendoci però immancabilmente alla supercie. Come ci avesse attaccato ai fianchi un salvagente gonfiabile che ci impedisce di esplorare il profondo. Sempre obbligatoriamente di corsa, sempre a volo radente. Ma soprattutto (la grande invenzione di questo ultimo quarto di secolo) sempre più soli, isolati. Ecco il nuovo cardine geniale del nostro odierno girare a vuoto: il nulla che diventa pratica e destino inevitabile di ogni atto o giudizio solitario. Ed è stato così abile da farci percepire tutto questo come una conquista. Anche ai cristiani!

Siamo al termine di una lunga e paziente strategia di distrazione e di isolamento durata secoli: in pratica, si è compiuto un progressivo e (nel limite del possibile) radicale allontanamento da “ciò che sta fuori” per raggiungere la “pacicazione” interiore. La pace.

Un mio noto collega, il sociologo Ulrich Beck, ne ha delineato con molto acume la traiettoria in ambito religioso, documentando con perizia la recente formazione e la massiccia diffusione di una religiosità sempre più “individuale”. Si tratta di un processo secolare che può essere segmentato in due grandi tappe: individualizzazione “atto primo”, nella religione (il protestantesimo), e individualizzazione “atto secondo”, della religione, che il sociologo tedesco definisce come l’affermarsi del «Dio personale». Il Dio personale fissa l’inizio della “religione di sé”, del «Sé autentico», il «Sé sfrenato»: si tratta di un Dio che ha «dimora fissa e voce chiara nell’intimità della propria Vita», una religione nella quale «l’uomo è sia credente sia Dio».

C’è un passaggio particolarmente acuto nell’analisi di Beck, che fotografa con straordinaria efficacia il necessario cambiamento di obiettivo finale di questa religiosità 2.0, quello shift che il sociologo tedesco saluta, con un certo compiacimento, come mutazione necessaria per la conservazione stessa della nostra civiltà. Cito: «Che la verità possa essere rimpiazzata dalla pace è un processo decisivo per la sopravvivenza dell’umanità […] L’unica Verità non minaccia solamente la pace, ma la stessa sopravvivenza dell’umanità». E vengono subito fatti entrare in scena gli ormai classici paladini delle due polarità: da una parte papa Benedetto e, dall’altra, papa Francesco. I muri e i ponti.

Pace e verità: in questa ricostruzione, esse sono inversamente proporzionali, più cresce una, più cala l’altra, più si afferma l’una, più si deprime l’altra.

Personalmente avevo sempre pensato che l’unica cosa su cui umanamente valga la pena (sia giustificabile o addirittura doveroso) dividersi sia proprio la verità: oggi assistiamo a un moltiplicarsi di divisioni su tutto (tutto) fuorché sulla verità. Una sotterranea separazione microscopica che innerva le nostre relazioni, dalle più anonime a quelle più familiari, indierentemente su questioni essenziali come su stronzate mostruosamente ingigantite. “Una pace senza verità – avevo sempre pensato – deve essere chiamata in altro modo”. Potrebbe essere definita, piuttosto, “armistizio”, vale a dire “guerra rimandata”, “guerra temporaneamente congelata” perché, al momento, “sconveniente”.

La rinuncia alla verità sta portando a qualcosa di simile alla (e perciò molto diverso dalla) pacificazione. La rinuncia alla verità ha creato un simulacro, un fac simile della pacificazione: ha creato la società dell’armistizio. Cioè una polveriera.

Un bel problema.

D’altra parte, lo stesso Gesù non ci era andato con i guanti: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada… a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera». Aveva addirittura evocato il principe del male, il demonio, per definire l’amico che lui stesso aveva scelto per guidare la sua grande impresa: «Allontanati da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Il poveretto, Pietro, l’amico, il primo papa, si era meritato questo epiteto! Perché? Perché aveva tentato (disgraziato incosciente) di dividere Gesù dalla verità. Cioè dalla relazione con suo Padre. Questo è il punto.

Quella domanda che risuonerà finché ci sarà storia dell’umano (quid est veritas?) è il vero fattore discriminante di tutta la civiltà o inciviltà che dovrà venire: perché verità e pace sono indissolubili e allo stesso tempo miseramente manipolabili. Nella solitudine.

San Paolo, amico conflittuale di Pietro, lo aveva intuito, e aveva “esortato” gli amici di Colossi (con immagini tanto semplici quanto eterne) a preservare l’unico vero antidoto contro il nulla: «La realtà, invece, è Cristo. Nessuno si compiaccia in pratiche di poco conto, seguendo le proprie pretese visioni, gonfio di vano orgoglio nella sua mente carnale. Stringetevi, invece, al Capo, dal quale tutto il Corpo riceve sostentamento e coesione, per mezzo di giunture e legamenti, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio».

La verità è una relazione: che sia possibile credere che l’origine e il destino dell’Essere sia tutta dipendente dalla comunione di Padre, Figlio e Spirito è un fatto che deriva non da una spiccata intelligenza teologica, ma da una quotidianità vissuta per mezzo di giunture e legamenti: la verità è “frequentabile” attraverso questa quotidiana comunione umana, è un fatto di comunione. O più semplicemente, di amicizia cristiana.

È questo l’unico antidoto alle chiacchiere sul nulla (demoniache), alle discussioni sui papi, alle divisioni che nascono da gonfiaggini di vano orgoglio di menti carnali: un’amicizia tesa al vero, cioè al Capo, quello del Cielo e quello di qua, sulla terra, il suo vicario (che d’altra parte ci chiede sempre di pregare per lui e occorrerà pur farlo, vista la confusione. Una confusione, occorre ricordarlo, che c’è sempre stata, che era previsto ci fosse, che è stata anche maggiore in tanti momenti della storia. E che “non prevarrà”, comunque. È il patto).

C’è un’ultima questione, la più scomoda. In un film straordinario (Il pranzo di Babette), si racconta di una sperduta “società dell’armistizio” danese (guarda caso, profondamente devota al Dio personale) in cui capita una povera cristiana che cambia il volto del villaggio con un gesto semplice e clamoroso: spende tutto ciò che ha per offrire un pranzo. Salva tutto sacrificando, per gli amici, per “farli amici”. È solo in quel momento che i commensali hanno lo strumento per comprendere, credere e sperare nella promessa esorbitante dell’antico salmo: «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno».

Che venga concessa a chi guida la forza di questo martirio è la nostra preghiera, la nostra grande impresa, la nostra speranza.

 

Articolo di Pier Paolo Bellini        17 novembre 2018        Società

Articolo tratto dal numero di Tempi di ottobre.